L'odore della musica


Comprai il mio primo disco nel 1977. Era un LP della serie "Linea Tre" della RCA (chiamata così perchè al lancio i dischi costavano tremila lire) con la sinfonia n. 6 di Beethoven nell'esecuzione della Boston Symphony Orchestra diretta da Erich Leinsdorf. Volevo una "Sesta" perchè avevo letto che a un certo punto c'era una tempesta, e la cosa mi sembrava una figata pazzesca.
Col senno di poi ammetto che forse era una motivazione esteticamente un po' labile: ma onestamente a dieci anni al concetto dell'autonomia semantica della musica non ero ancora arrivato.

Di quel disco, comprato alla Standa di Avellino in un reparto che  mi sembrava un autentico paese dei balocchi, ricordo tutto: la copertina in giallo con un paesaggio campestre, la busta bianca all'interno, il bellissimo logo RCA. E ricordo l'odore. Me lo ricordo bene perchè durante il lunghissimo (almeno tale mi parve) viaggio di ritorno verso Nola non potendo farci altro cominciai ad annusarlo, quasi fosse possibile cominciare ad assimilare per via olfattiva la musica contenuta in quei solchi.

Col tempo la mia collezione di dischi aumentò. Aumentò lentamente perchè la disponibilità economica e l'accesso a negozi di dischi forniti erano quel che erano: ma ogni disco era una piccola festa. Chi è cresciuto ai tempi di iTunes e YouTube è stato deprivato dell'esperienza del contatto materiale con la musica, e dei piccoli riti che a questa materialità erano connessi. Soprattutto, è stato deprivato del senso di evento che ogni acquisizione si portava dietro, dei gruppi di discussione tra amici che si formavano quando qualcuno entrava in possesso di un nuovo disco, del ruminare la stessa musica per settimane o per mesi.

Quando verso la metà degli anni '80 cominciai ad avere un po' (ma giusto un po') di liquidi in più e soprattutto cominciai a frequentare i negozi di dischi di Napoli era l'epoca dell'avvento del CD. Per un periodo mi barcamenai tra i due mondi, ma poi l'indubbia comodità del nuovo supporto (non si doveva più girare il disco!), la presunta superiorità della riproduzione digitale e soprattutto la scomparsa quasi totale avvenuta nel giro di uno-due anni degli LP  fecero pendere la bilancia a favore del nuovo che avanzava.

Da allora ho accumulato un numero di CD più grande di quello che ho voglia di ricordare (arrivato a quota mille ho smesso deliberatamente di contarli) e tutto sommato mi va bene così. Ma quando uno ha fatto in tempo a cominciare la propria carriera di collezionista di musica annusando un vinile, un po' di nostalgia per quei padelloni neri se la porta inevitabilmente dentro. Anche perchè il policarbonato del CD non è il vinile, e per i CD si può dire quello che la Mimì della Boheme dice dei suoi fiori artificiali:  "ahimè,  non hanno odore".

JVC QL-F4, un giradischi ma anche una macchina del tempo

Da ieri sera, complici una cena di compleanno e la generosità immeritata e un po' folle di un gruppo di amici  tra cui è presente un vero talebano dell'analogico appassionato del bel suono, sono inaspettatamente rientrato in possesso di un discreto setup di riproduzione di LP. Ho ripreso un vero disco di vinile per le mani; e sono ritornato in quella Ford Escort blu guidata da mio padre che da Avellino mi riportava verso Nola.

Adesso non mi rimane che espandere la mia collezione di vinili. Lo farò, vorrei farlo, come allora: un pezzo alla volta, senza fretta, godendo di questo suono e di questa matericità. Libero da bit, convertitori A/D e streaming. E riscoprendo, in mezzo a un po' di fruscio e a qualche inevitabile click, un po' di quello che ero.

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