La realtà di Ricciardi
Amo molto leggere romanzi gialli.
Innanzitutto perchè i gialli postulano un ordine del mondo e la possibilità di spiegare (il che significa neutralizzare, assorbire) le anomalie rispetto a quest'ordine. Nel giallo paradossalmente "l'enigma non v'è" - per dirla con Wittgenstein. E questa è una cosa che soprattutto in tempi incerti fornisce una gradevole, ancorchè fragile, rassicurazione.
C'è poi l'aspetto pratico legato al mio essere ormai in larga parte un lettore itinerante, un lettore da treni e bus: nel corso degli anni in treno mi è capitato (e mi capita) di leggere davvero di tutto, dalle poesie ai testi di algebra astratta; e mi sono convinto che il giallo rappresenti una sorta di compromesso ideale tra le contrapposte esigenze di una lettura che da una parte deve fornire almeno un minimo di stimoli e dall'altra si trova a doverlo fare in condizioni lontane dall'ideale.
Un'altra caratteristica che amo nel giallo è che spesso il protagonista appare non in uno ma in una serie di libri, il che nelle mani giuste è uno strumento formidabile per creare figure che romanzo dopo romanzo finiscono per diventare reali; personaggi immaginari che possono arrivare ad interferire con la realtà, come in una novella di Borges.
Nel corso dell'ultimo anno alla mia galleria di personaggi-immaginari-ma-non-del-tutto si è aggiunta la figura dolente di Luigi Alfredo Ricciardi, commissario della R. Questura di Napoli negli anni del fascismo, nato dalla fantasia di Maurizio de Giovanni.
Uno dei primi esempi di via italiana al romanzo poliziesco è la serie del commissario De Vincenzi di Augusto de Angelis: anche quella ambientata in epoca fascista (a Milano però, non a Napoli), anche quella avente come protagonista un funzionario sostanzialmente estraneo al contesto politico e ideologico in cui si trova ad operare, e per questo fatalmente condannato a non "fare carriera", e a rimanere al proprio posto solo in virtù della propria implacabile efficienza professionale.
Ma i paralleli finiscono qua: innanzitutto, De Angelis scrive praticamente negli stessi anni in cui ambienta le proprie storie (il primo romanzo della serie, Il banchiere assassinato è del 1935) mentre de Giovanni rievoca un clima e un mondo da cui ormai ci separano quasi ottant'anni: l'uno descrive quanto ha sott'occhio, l'altro rievoca, riscopre, ricostruisce.
Inoltre la renitenza di De Vincenzi ha basi prima di tutto intellettuali: il commissario di De Angelis legge (di nascosto) Freud, ama le letterature anglosassoni, è insomma del tutto incompatibile col ristretto provincialismo culturale della società (e a maggior ragione della polizia) in cui è inserito.
Ricciardi no, Ricciardi è un fuori posto per motivi essenzialmente antropologici, motivi che probabilmente ne farebbero un fuori posto anche in altri contesti storici o ambientali: il dono, la maledizione di Ricciardi è quello di vedere - come lo chiama lui - il fatto.
Ricciardi vede i morti.
Più esattamente, vede i morti di morte violenta e li vede nel momento in cui muoiono, e li sente ripetere l'ultima frase, l'ultimo barlume di pensiero prima di estinguersi nel Nulla.
Questo fardello ne determina la sostanziale, irridemibile solitudine, tanto più difficile da sopportare quanto meno è comprensibile dalle persone che a vario titolo girano intorno a Ricciardi e gli sono affezionate: per costoro il commissario è come circondato da un diaframma di gelo che non ha cause, nè scopi, nè crepe.
Già solo questi sommari accenni dovrebbero far capire che Ricciardi è un personaggio fuori dal comune, e che fuori dal comune sono le sue storie; ma i romanzi di de Giovanni si fanno apprezzare anche per almeno altri due elementi: da una parte l'ambientazione, una Napoli credibile, ricostruita con esattezza e precisione di particolari senza però cedere mai al bozzetto o all'oleografia; dall'altra la cura - starei per dire l'amore con cui vengono delineati i personaggi che si muovono intorno al commissario: da quelli che ritroviamo da un romanzo all'altro (il burbero brigadiere Majone, il cinico - in apparenza - dottor Modo, Bambinella il femminiello, Enrica) a quelli che appaiono in una sola storia. Si esce dalla lettura di questi libri con la sensazione di aver conosciuto, capito qualcosa di tutti: di Ricciardi, di Majone, ma anche dei colpevoli, ma anche delle vittime.
Al momento in cui scrivo de Giovanni ha pubblicato - protagonista Ricciardi - quattro romanzi (Il senso del dolore, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, La condanna del sangue) ognuno ambientato in una stagione dell'anno e altri due (Per mano mia e Vipera) le cui vicende si svolgono rispettivamente a Natale e a Pasqua.
Il mio auspicio è che presto il calendario gli fornisca altri spunti che diano a me e a tutti i suoi lettori la possibilità di vedere ancora Ricciardi nutrirsi di caffè e sfogliatelle al Gambrinus, in una sosta del suo girovagare per Napoli a piedi, ostinatamente senza cappello.
Innanzitutto perchè i gialli postulano un ordine del mondo e la possibilità di spiegare (il che significa neutralizzare, assorbire) le anomalie rispetto a quest'ordine. Nel giallo paradossalmente "l'enigma non v'è" - per dirla con Wittgenstein. E questa è una cosa che soprattutto in tempi incerti fornisce una gradevole, ancorchè fragile, rassicurazione.
C'è poi l'aspetto pratico legato al mio essere ormai in larga parte un lettore itinerante, un lettore da treni e bus: nel corso degli anni in treno mi è capitato (e mi capita) di leggere davvero di tutto, dalle poesie ai testi di algebra astratta; e mi sono convinto che il giallo rappresenti una sorta di compromesso ideale tra le contrapposte esigenze di una lettura che da una parte deve fornire almeno un minimo di stimoli e dall'altra si trova a doverlo fare in condizioni lontane dall'ideale.
Un'altra caratteristica che amo nel giallo è che spesso il protagonista appare non in uno ma in una serie di libri, il che nelle mani giuste è uno strumento formidabile per creare figure che romanzo dopo romanzo finiscono per diventare reali; personaggi immaginari che possono arrivare ad interferire con la realtà, come in una novella di Borges.
Nel corso dell'ultimo anno alla mia galleria di personaggi-immaginari-ma-non-del-tutto si è aggiunta la figura dolente di Luigi Alfredo Ricciardi, commissario della R. Questura di Napoli negli anni del fascismo, nato dalla fantasia di Maurizio de Giovanni.
Uno dei primi esempi di via italiana al romanzo poliziesco è la serie del commissario De Vincenzi di Augusto de Angelis: anche quella ambientata in epoca fascista (a Milano però, non a Napoli), anche quella avente come protagonista un funzionario sostanzialmente estraneo al contesto politico e ideologico in cui si trova ad operare, e per questo fatalmente condannato a non "fare carriera", e a rimanere al proprio posto solo in virtù della propria implacabile efficienza professionale.
Ma i paralleli finiscono qua: innanzitutto, De Angelis scrive praticamente negli stessi anni in cui ambienta le proprie storie (il primo romanzo della serie, Il banchiere assassinato è del 1935) mentre de Giovanni rievoca un clima e un mondo da cui ormai ci separano quasi ottant'anni: l'uno descrive quanto ha sott'occhio, l'altro rievoca, riscopre, ricostruisce.
Inoltre la renitenza di De Vincenzi ha basi prima di tutto intellettuali: il commissario di De Angelis legge (di nascosto) Freud, ama le letterature anglosassoni, è insomma del tutto incompatibile col ristretto provincialismo culturale della società (e a maggior ragione della polizia) in cui è inserito.
Ricciardi no, Ricciardi è un fuori posto per motivi essenzialmente antropologici, motivi che probabilmente ne farebbero un fuori posto anche in altri contesti storici o ambientali: il dono, la maledizione di Ricciardi è quello di vedere - come lo chiama lui - il fatto.
Ricciardi vede i morti.
Più esattamente, vede i morti di morte violenta e li vede nel momento in cui muoiono, e li sente ripetere l'ultima frase, l'ultimo barlume di pensiero prima di estinguersi nel Nulla.
Questo fardello ne determina la sostanziale, irridemibile solitudine, tanto più difficile da sopportare quanto meno è comprensibile dalle persone che a vario titolo girano intorno a Ricciardi e gli sono affezionate: per costoro il commissario è come circondato da un diaframma di gelo che non ha cause, nè scopi, nè crepe.
Già solo questi sommari accenni dovrebbero far capire che Ricciardi è un personaggio fuori dal comune, e che fuori dal comune sono le sue storie; ma i romanzi di de Giovanni si fanno apprezzare anche per almeno altri due elementi: da una parte l'ambientazione, una Napoli credibile, ricostruita con esattezza e precisione di particolari senza però cedere mai al bozzetto o all'oleografia; dall'altra la cura - starei per dire l'amore con cui vengono delineati i personaggi che si muovono intorno al commissario: da quelli che ritroviamo da un romanzo all'altro (il burbero brigadiere Majone, il cinico - in apparenza - dottor Modo, Bambinella il femminiello, Enrica) a quelli che appaiono in una sola storia. Si esce dalla lettura di questi libri con la sensazione di aver conosciuto, capito qualcosa di tutti: di Ricciardi, di Majone, ma anche dei colpevoli, ma anche delle vittime.
Al momento in cui scrivo de Giovanni ha pubblicato - protagonista Ricciardi - quattro romanzi (Il senso del dolore, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, La condanna del sangue) ognuno ambientato in una stagione dell'anno e altri due (Per mano mia e Vipera) le cui vicende si svolgono rispettivamente a Natale e a Pasqua.
Il mio auspicio è che presto il calendario gli fornisca altri spunti che diano a me e a tutti i suoi lettori la possibilità di vedere ancora Ricciardi nutrirsi di caffè e sfogliatelle al Gambrinus, in una sosta del suo girovagare per Napoli a piedi, ostinatamente senza cappello.
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