La campana d'Islanda

Prendete un contadino islandese della metà del '600 che vive con la madre, la moglie e quattro figli (di cui due lebbrose e uno demente), un ribaldo di tre cotte che finirà col viaggiare in Germania, in Olanda, in Danimarca, che si ritroverà più volte in prigione e in attesa di essere giustiziato e affronterà tutte le sue vicissitudini intonando i versi delle saghe.
Poi prendete uno studioso di queste  antiche saghe islandesi, un latinista erudito il cui unico scopo nella vita è raccogliere e conservare tutti i documenti scritti che parlino della storia dell'Islanda e la cui inestimabile collezione di manoscritti e pergamene finirà in gran parte distrutta durante l'incendio di Copenhagen.
E infine aggiungete una donna bellissima, perdutamente innamorata dello studioso ma che sposerà un possidente ubriacone che a un certo punto arriverà a  vendere i suoi diritti sulla moglie in cambio di una bottiglia di acquavite.
Di questi tre personaggi altamente improbabili e dell'ancora più improbabile intrecciarsi delle loro vicende parla La campana d'Islanda, probabilmente il magnum opus dell'unico islandese ad avere vinto il premio Nobel per la letteratura: Halldòr Laxness, di recente pubblicato nella magnifica traduzione di Alessandro Storti a cura della (sempre più) benemerita Iperborea.

Come tutti i grandissimi romanzi della tradizione occidentale La campana d'Islanda è prima di tutto una formidabile storia, una di quelle che ti fanno rimanere col libro in mano a girare pagina dopo pagina in attesa di vedere come va a finire.
Una storia in cui ognuno dei tre protagonisti (ma anche i tanti personaggi secondari e finanche le comparse) è tratteggiato con un'abilità che li rende autentici, credibili, vivi: da quell'autentica, irresistibile canaglia di Jón Hreggviðsson (antesignano di Bjarthur di Somarus, l'altra carogna che è il protagonista di un altro grande romanzo di Laxness, Gente indipendente) alla fame di libertà e amore assoluto di Snæfríður «Sole d’Islanda», che non potendo avere il migliore degli uomini sceglie di unirsi al peggiore pur di poter decidere in prima persona del proprio destino, al rovello interiore di Arnas Arnæus che si sente chiamato a un compito che non gli lascia spazio per nient'altro, questo libro si lascia con l'impressione di aver conosciuto persone in carne ed ossa tanto potente e tridimensionale è la loro rappresentazione sulla carta.

Ma ovviamente dietro il puro e semplice (!) narrare, Laxness svolge una riflessione su almeno due piani: da un lato sul senso di cosa voglia dire essere islandesi, essere parte di una nazione sospesa fra i due pericoli opposti dell'isolamento totale e della colonizzazione (della Danimarca ai tempi della vicenda del racconto, degli Stati Uniti ai tempi in cui Laxness lo scrive); dall'altro (e questo è ovviamente un tema ben più universale) sul rapporto fra ogni uomo e il suo destino, fra ciò che sentiamo di essere e ciò che le forze della natura, della società e della storia ci fanno diventare.

Quello che Laxness getta sugli islandesi e sull'umanità in generale non è un occhio particolarmente benevolo, ma la causticità della sua scrittura non diventa mai cinismo. È un'opera dura ma non disperata, anzi alla fine se ne esce paradossalmente ma decisamente rinfrancati.

Leggetelo, ne vale davvero la pena.

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